Il disastro del Vajont
La diga del Vajont è stata e costruita tra il 1957 e il 1960 nel territorio del comune di Erto e Casso (PN), nella Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia. Essa prende il nome dal torrente Vajont, lungo il cui corso è stata costruita. Progettata dall’ingegner Carlo Semenza e oggi in disuso, la diga è di tipo a doppio arco e attua uno sbarramento di 261 metri, che la rende la quinta diga più alta del mondo (la terza ad arco). All’epoca della sua costruzione era la più alta al mondo.
Lo scopo della diga era di fungere da serbatoio di regolazione stagionale per le acque del fiume Piave, del torrente Maè e del torrente Boite che in precedenza andavano direttamente al bacino della Val Gallina. Le acque sottratte al loro corso naturale vennero così incanalate dalla diga di Pieve di Cadore (Piave), da quella di Pontesei (Maè) e da quella di Valle di Cadore (Boite) al bacino del Vajont tramite chilometri di tubazioni in cemento armato vibrato e ponti-tubo. A questo complesso si aggiunse successivamente la vecchia diga di Vodo di Cadore, che permise di alzare la diga del Vajont di 15 metri rispetto al progetto originario.
In questo sistema complesso sistema idraulico le differenze di quota tra i diversi bacini venivano usate per produrre energia tramite piccole centrali idroelettriche, come quella del Colombèr, ricavata in caverna ai piedi della diga del Vajont, e quella di Castellavazzo. Le acque scaricate dalla centrale di Soverzene venivano poi condotte, tramite un canale, al Lago di S.Croce e ai successivi laghi con le relative centrali.
Questo sistema era concepito per sfruttare al massimo tutte le acque ed i salti disponibili del fiume Piave e dei suoi affluenti. Il punto centrale dell’intera opera idraulica era il bacino del Vajont, che fu compromesso prima dalla frana del Lago di Pontesei e poi dalla frana che causò l’omonimo disastro.
Il disastro del Vajont
La sera del 9 ottobre 1963 una massa di circa 270 milioni di metri cubi di roccia si staccò dal versante settentrionale del monte Toc – situato all’epoca al confine tra le province di Belluno e Udine – e precipitò nel sottostante bacino artificiale, provocando un’onda di piena che causò una catastrofe su due versanti, nelle valli del Vajont e del Piave.
Parte dell’onda venne spinta ad est verso il centro della vallata del Vajont, risalendo il versante opposto e distruggendo tutti gli abitati lungo le sponde del lago nel comune di Erto e Casso. Vennero distrutti i borghi di Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè e la parte bassa dell’abitato di Erto.
La seconda ondata scavalcò il coronamento della diga e si riversò nella valle del Piave con una velocità impressionante. La stretta gola del Vajont la compresse ulteriormente e le fece acquisire maggior energia. Il greto del Piave fu raschiato dall’onda alta 70 metri, che si abbatté con inaudita violenza su Longarone. Gli edifici furono sommersi dall’acqua e completamente distrutti. Quando l’onda perse il suo slancio, andandosi ad infrangere contro la montagna, iniziò un lento riflusso verso valle. Quest’azione fu altrettanto distruttiva, poichè scavò in senso opposto alla direzione di spinta.
Altre frazioni del circondario furono distrutte, totalmente o parzialmente: Rivalta, Pirago, Faè e Villanova nel comune di Longarone, Codissago nel comune di Castellavazzo. Il Piave tornò al suo flusso normale solo dopo una decina di ore.
Il disastro causò 1910 vittime, di cui 1450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e quasi 200 in altri comuni.
La diga resistette alla pressione e non crollò. Dalle verifiche effettuate è emerso che le sollecitazioni a cui il manufatto fu sottoposto durante la tragedia furono quasi 10 volte superiori a quelle prevedibili durante il normale esercizio. Se avesse ceduto, le conseguenze sarebbero state ancora più disastrose, in quanto la quantità di acqua riversata a valle sarebbe stata tripla rispetto a quanto avvenuto. La massa d’acqua dell’onda è stata infatti valutata intorno ai 50 milioni di metri cubi, mentre la capienza del lago al momento dell’evento era di 150 milioni di metri cubi.
Gli effetti morfologici e i danni materiali
Gli effetti morfologici creati dall’onda furono notevoli. L’acqua asportò la vegetazione e parte delle coperture moreniche e detritiche, mettendo a nudo la viva roccia sottostante. Buona parte del corpo franoso, investito dall’onda di ritorno, subì anch’esso questo processo di asportazione. Ad esclusione della diga, le opere umane furono completamente distrutte.
Il bacino del Vajont si divise in tre parti: un lago di considerevoli dimensioni a monte della frana, conosciuto oggi come “lago di Erto”, un lago più piccolo a valle dal lato della diga, ed un terzo che scomparve in breve tempo, formatosi sul corpo stesso della frana. Allo sbocco della gola del Vajont, sul versante sinistro del Piave, l’onda scavò una fossa così profonda da essere occupata da un laghetto per un mese. Terreno e detriti furono completamente asportati anche sul versante destro.
Come per le abitazioni, gli edifici industriali situati tutti sulla parte bassa della vallata scomparvero, e vaste aree agricole furono definitivamente perse. I danni si estesero, seppur limitatamente, ad altri comuni situati lungo il corso del Piave. Le perdite del patrimonio zootecnico furono stimate intorno al 30%.
La diga oggi
Negli ultimi anni è avvenuta una ripresa di interesse verso la diga e la tragedia del Vajont. Nel 2002 l’Enel, oggi proprietaria delle strutture e dei terreni, ha aperto al pubblico la prima parte del coronamento sopra la diga, affidando le visite guidate ad alcune associazioni del territorio.
Nel 2013, in occasione del cinquantesimo anniversario della catastrofe, le amministrazioni dei comuni di Castellavazzo, Erto e Casso, Longarone e Vajont, in collaborazione con l’omonima fondazione, hanno programmato un calendario celebrativo con lo scopo di richiamare l’attenzione sul Vajont attraverso varie iniziative di carattere culturale, storico e sociale.